Un nuovo studio rivela 26 pigmenti usati nelle decorazioni pompeiane, restituendo l’immagine di una città vivace e sofisticata
La ricerca condotta dal Parco Archeologico di Pompei si è svola in collaborazione con l’Università del Sannio e la Federico II di Napoli. Questa scoperta apre nuove prospettive per il restauro e la comprensione dell’arte antica.
Pompei non era affatto la città monocromatica che oggi appare agli occhi dei visitatori. Al contrario, le sue strade, case e templi erano avvolti da una tavolozza di colori vivaci, ben lontani dal grigio spento lasciato dal tempo. Grazie a un’innovativa ricerca condotta dal Parco Archeologico di Pompei in collaborazione con l’Università del Sannio (gruppo di Mineralogia e Petrografia, Dipartimento di Scienze e tecnologie) e la Federico II di Napoli, sono stati identificati ben 26 pigmenti differenti, rivelando una sorprendente ricchezza cromatica.
Questa ricerca non solo permette di comprendere meglio le tecniche pittoriche dell’epoca, ma apre nuove prospettive per il restauro e la conservazione. Come sottolinea Celestino Grifa, docente di Petrografia e Petrologia all’Università del Sannio, la conoscenza approfondita della composizione dei pigmenti potrebbe consentire di ricreare le miscele originali, restituendo ai dipinti l’autentico splendore di duemila anni fa.
I pigmenti, analizzati attraverso tecniche non invasive, dimostrano che il colore era un elemento chiave nell’estetica e nella comunicazione sociale dell’epoca. Il blu egizio, simbolo di lusso e ricchezza, era particolarmente apprezzato, soprattutto nelle tonalità più chiare, ancora più costose. Il celebre rosso pompeiano, ottenuto da ossidi di ferro, dominava le pareti delle domus più prestigiose, spesso abbinato a tinte forti come il viola, il nero e l’arancio. Non mancavano il verde, ottenuto con terre naturali, e il giallo, uno dei colori più antichi ma mai completamente puro.
Gli affreschi, spesso a sfondo mitologico, fungevano da veri e propri strumenti di intrattenimento per gli ospiti, trasformando le pareti in una sorta di cinema ante-litteram. I colori, mescolati con sapienza, servivano a enfatizzare scene di vita quotidiana.
Tra le scoperte più affascinanti, emerge una nuova tonalità di grigio, ottenuta mescolando blu egizio, rosso scuro a base di ferro e un verde chiaro derivato da barite e alunite. Questo ritrovamento ha permesso di identificare, per la prima volta, l’uso del solfato di bario in epoca romana, un materiale che giungeva dai giacimenti dei Campi Flegrei e dell’area vesuviana.
Le analisi condotte su campioni provenienti da diversi siti pompeiani, tra cui l’insula dei Casti Amanti e il Tempio di Apollo, hanno anche rivelato il metodo di lavoro degli artisti. Gli affreschi venivano realizzati dall’alto verso il basso, con schizzi preparatori che guidavano la creazione delle scene. Alcune opere, interrotte dall’eruzione del 79 d.C., testimoniano il fermento edilizio in atto a Pompei prima della catastrofe.





